Limite del 30%

Dopo l’Ordinanza del Tar Lombardia (5 gennaio 2018 n. 28), anche il Consiglio di Stato rinvia alla Corte di Giustizia Europea la questione del limite del 30% al subappalto, in ragione dei dubbi sulla compatibilità con i principi comunitari.

Con Ordinanza dell’11 giugno 2018, n. 3553, la Sesta Sezione del Consiglio di Stato ha rimesso alla Corte di Giustizia Europea la questione “se i principi di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi, di cui agli artt.  49 e 56 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), gli artt. 25 della Direttiva 2004/18 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 31 marzo 2004 e 71 della Direttiva 2014//24 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 26 febbraio 2014, che non contemplano limitazioni per quanto concerne la quota subappaltatrice ed il ribasso da applicare ai subappaltatori, nonché il principio eurounitario di proporzionalità, ostino all’applicazione di una normativa nazionale in materia di appalti pubblici, quale quella italiana contenuta nell’art. 118, commi 2 e 4, D.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, secondo la quale il subappalto non può superare la quota del trenta per cento dell’importo complessivo del contratto e l’affidatario deve praticare, per le prestazioni affidate in subappalto, gli stessi prezzi unitari risultanti dall’aggiudicazione, con un ribasso non superiore al venti per cento”.

La questione originava dalla lamentata illegittimità dell’atto di aggiudicazione definitiva di una gara bandita dall’Università La Sapienza di Roma per l’affidamento del servizio di pulizie. Specificamente, l’impresa ricorrente deduceva l’inaffidabilità ed irrealizzabilità dell’offerta dell’aggiudicataria, oltre che la violazione dell’art. 118 co. 2 e 4 del D.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, perché fondata su un ribasso ottenuto mediante la previsione di affidamento in subappalto di una parte delle attività da svolgere superiore al limite del 30%, con riconoscimento in favore delle imprese subappaltatrici di un compenso inferiore di oltre il 20% rispetto a quanto praticato in favore dei propri dipendenti.

Ad avviso della Sesta Sezione del Consiglio di Stato, la previsione dei limiti generali dettata nei co. 2 e 4 dell’art. 118 del previgente D.lgs. n 163/2006 (contenenti rispettivamente un limite generale del 30% per il subappalto, con riguardo all’importo complessivo del contratto, impedendo agli operatori economici di subappaltare a terzi una parte cospicua delle opere, pari al 70 %, nonché un limite del 20 % al ribasso da applicare ai subappaltatori), può rendere ostico l’accesso delle imprese, in particolar modo di quelle di piccole e medie dimensioni, agli appalti pubblici.

In tal modo, secondo il Collegio, viene ostacolato l’esercizio della libertà di stabilimento e della libera prestazione di servizi, nonché preclusa agli stessi acquirenti pubblici, l’opportunità di ricevere offerte più numerose e diversificate.

Tale limite, non previsto dalla Direttiva 2004/18, impone una restrizione alla facoltà di ricorrere al subappalto per una parte del contratto fissata in maniera astratta in una determinata percentuale dello stesso, a prescindere dalla possibilità di verificare le capacità di eventuali subappaltatori e senza menzione alcuna del carattere essenziale degli incarichi di cui si tratterebbe, in contrasto con gli obiettivi di apertura alla concorrenza e di favore per l’accesso delle piccole e medie imprese agli appalti pubblici.

Giova ricordare che non tutta la giurisprudenza amministrativa è concorde nel ritenere il subappalto uno strumento deputato alla massima partecipazione nelle gare d’appalto.

Il Tar Piemonte, ad esempio, ha ritenuto illegittimo favorire le imprese che non si avvalgono del subappalto, in ragione della natura problematica dello stesso, nonché del fatto che il subappalto non ha veramente la funzione di garantire la partecipazione alle gare delle piccole imprese, come invece l’avvalimento o la partecipazione in raggruppamento. Pertanto, mediante la Sentenza n. 578 del 2018, il Tar piemontese ha considerato legittimi e non discriminatori i bandi che puntano a scoraggiare il ricorso al subappalto.

Il Tribunale Amministrativo Piemontese, attraverso la suesposta Sentenza, ha ritenuto legittima una clausola del bando che attribuiva un punteggio aggiuntivo (max. 10 punti) per i concorrenti che intendessero avvalersi della facoltà di subappaltare in quota inferiore al massimo consentito dai termini di Legge. Nello specifico, i giudici hanno ritenuto che, nonostante la giurisprudenza UE affermi che non potrebbero porsi limiti al subappalto, una stazione appaltante possa offrire un punteggio aggiuntivo a chi decida di limitarlo, ritenendolo una modalità di esecuzione “strumento di sfruttamento delle PMI”, da guardare con diffidenza”. Tale decisione, tuttavia, ad avviso dell’Ance, oltre ad essere lontana dall’approccio europeo all’istituto del subappalto, appare discutibile.

Infatti, va ricordato che la recente Guida della Commissione UE sugli errori più comuni commessi dalle Stazioni Appaltanti nell’affidamento dei progetti finanziati dai fondi strutturali e di investimento europei, annovera tra le “cattive pratiche” proprio quella di utilizzare il subappalto come criterio di aggiudicazione, allo scopo di limitarne il ricorso. E cita proprio l’esempio dei punteggi più alti per gli offerenti che dichiarino di non ricorrere al subappalto.

In questo contesto, va ricordato che, a seguito dell’esposto presentato dall’Ance, ad aprile dello scorso anno, la Commissione UE ha esortato il Governo Italiano a modificare le disposizioni sul subappalto, giudicando il tetto del 30% in contrasto con gli obiettivi di concorrenza e di apertura alle Piccole e medie imprese. Nonostante l’invito della Commissione UE, il Legislatore italiano ha mantenuto il limite del 30% asserendo che esso costituisce un aspetto di maggior rigore rispetto alle Direttive europee, e  (non un “ingiustificato goldplating”), sostenuto da pregnanti ragioni di ordine pubblico, di tutela della trasparenza e del mercato del lavoro e pertanto, “il maggior rigore nel recepimento delle Direttive, deve, da un lato, ritenersi consentito nella misura in cui non si traduce in un ostacolo ingiustificato alla concorrenza, dall’altro lato ritenersi giustificato (quando non imposto) dalla salvaguardia di interessi e valori costituzionali, ovvero enunciati nell’art. 36 del TFUE”.

 

 

 

Angeladea Ferrari